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Il numero inaugurale di Status_Quo, il magazine di Cuiprodest sui temi chiave della politica e dell’impresa raccontati dai loro protagonisti, contiene un’intervista a Libero Cantarella, Presidente di IPPR (Istituto per la Promozione delle Plastiche da Riciclo), sul tema del greenwashing – fenomeno sempre più diffuso e dannoso per imprese, consumatori e, soprattutto, per l’ambiente.

Leggi e scarica Status_Quo di giugno 2023

Un rilevante caso di studio in tema di greenwashing è quello che riguarda la plastica, spesso oggetto di ingiustificati attacchi e critiche, ma che risulta essere uno dei materiali più importanti in tutti i settori – dall’automotive all’agricoltura, dalla sanità all’edilizia. Il livello di attenzione su questo materiale – anche in ambito di comunicazione pubblica – è lievitato negli ultimi anni e, a tal proposito, abbiamo chiesto a Libero Cantarella, Presidente di IPPR (Istituto per la Promozione delle Plastiche da Riciclo), alcune delucidazioni sul rischio di greenwashing nel settore delle materie plastiche. IPPR nasce nel 2004 per volontà di Unionplast, Plasticseurope e Corepla con l’obiettivo di favorire l’incontro tra domanda e offerta nell’ambito delle plastiche da riciclo.

Presidente Cantarella, sui prodotti di uso quotidiano troviamo spesso dichiarazioni quali “bottiglia con 100% di plastica riciclata” oppure “imballaggio con 50% di plastica riciclata”: quanto può il consumatore oggi fidarsi di asserzioni di questo tipo? E qual è il ruolo di IPPR a riguardo?

Vorrei dire che trovo intollerabili le asserzioni con cui si sostiene che l’imballaggio sia stato realizzato “con l’x% in meno di plastica”, che in sé appare un assunto positivo, mentre nella maggior parte dei casi vuol dire semplicemente che la plastica è stata sostituita da un altro materiale, senza che siano fornite indicazioni in merito a una reale sostenibilità del prodotto, che quindi viene millantata. I brand owner hanno molte responsabilità, cedendo a una comunicazione irrazionale e irresponsabile nel tentativo di dare risposte a generiche richieste di sostenibilità da parte dei consumatori.

Si colpisce, dunque, ciò che nell’immaginario collettivo rappresenta un pericolo e la plastica è il candidato ideale per questo tipo di comunicazione. Se il consumatore non vuole plastica, la si sostituisce a qualunque costo, anche a costo dell’insostenibilità!

Per rispondere più precisamente alla domanda, per quanto riguarda le asserzioni sull’utilizzo di plastica riciclata, certamente l’accresciuta attenzione dei consumatori verso un’economia non più lineare ha portato alla crescita del mercato delle materie prime seconde. IPPR infatti può testimoniare che nella sua ultraventennale attività associativa con il marchio “Plastica Seconda Vita” ha portato alla certificazione ben 8000 prodotti che incorporano plastiche provenienti dal ciclo dei rifiuti. Un risultato importantissimo che solo alcuni anni fa era impensabile. Il mercato, certamente, pullula di attori spregiudicati, quindi bisogna saper riconoscere le etichette attendibili, come appunto “Plastica Seconda Vita”, soprattutto perché IPPR ha scelto da diversi anni di far accreditare da Accredia il disciplinare collegato alla certificazione dei prodotti, creando una garanzia di serietà sul mercato.

“Quanto è importante l’analisi dell’intero ciclo di vita di un prodotto per la comparazione, per esempio, con altri tipi di materiali – penso alla carta o al vetro in sostituzione della plastica?”

La valutazione del ciclo di vita dei prodotti attraverso gli strumenti offerti dagli LCA -Life Cycle Assessment- è quanto di meglio si possa usare fra gli strumenti scientifici per la valutazione degli impatti ambientali dei prodotti, per l’appunto lungo tutto il ciclo di vita.

Tuttavia, come in molti casi, questi strumenti sono seri e affidabili solo in determinate condizioni, quando sono comunicati avendo ottenuto una certificazione di parte terza accreditata, altrimenti il rischio di greenwashing non solo è dietro l’angolo, ma è quasi una certezza. Altro punto dolente è l’utilizzo parziale degli strumenti offerti da questi studi, nel senso che la parte committente, che ovviamente ha interesse a comunicare un certo tipo di dato, normalmente comunica solo quello più vantaggioso, per esempio la sola CO2, ma la valutazione del ciclo di vita di un prodotto porta a esaminare ben 16 differenti tipi di impatto ambientale e a mio avviso la partita si gioca schierando tutti i giocatori.

Si tratta di strumenti ad alto contenuto scientifico e ingegneristico e occorre una preparazione specifica non solo per portarli a termine ma anche per interpretarli. Quindi, per quanto rappresentino uno strumento fondamentale, purtroppo gli studi LCA sono incomprensibili ai più e per questo la comunicazione si semplifica su messaggi elementari che hanno senso più per il consumatore che per la reale sostenibilità.

Qual è, secondo la sua esperienza, un comportamento virtuoso che può attuare il consumatore per tutelare l’ambiente?

Comprare ciò di cui ha veramente bisogno, avere consapevolezza di quanto le proprie azioni e interazioni possano condizionare la collettività, tornare a insegnare la buona educazione in famiglia. Basterebbe questo ma, per ottenere il massimo anche in ambito di raccolta differenziata, sarebbe dirimente riabilitare i programmi di educazione civica ambientale nelle scuole, al fine di trasmettere le pratiche e i messaggi corretti sin da una giovane età.